Sei insegnanti alle prese con le lezioni a distanza
Alberto Manzi, un maestro che ultimamente viene citato
spesso, diceva che basta una parola per aprire un mondo nuovo davanti a noi.
Una parola per queste giornate è “sospensione”: l’Italia è stato uno dei primi
paesi a sospendere le lezioni in tutte le scuole, il 5 marzo. Oggi 187 paesi
hanno seguito l’esempio, per limitare i contagi di Covid-19. Vuol dire che più
di un
miliardo e mezzo di ragazzi e ragazze, l’89,5 per cento della popolazione
scolastica globale, non sta andando a scuola (dai 321 milioni dell’India ai 923
dell’isola di Montserrat, nel mar dei Caraibi). In Italia la chiusura delle
scuole riguarda 8,3 milioni di studenti. Per loro è arrivata in un momento di
passaggio, quando finiva il quadrimestre e c’era appena stato il carnevale.
Nel decreto della
presidenza del consiglio dei ministri dell’8 marzo 2020 si legge che i
dirigenti scolastici “attivano, per tutta la durata della sospensione delle
attività didattiche nelle scuole, modalità di didattica a distanza”. La
didattica a distanza non può essere paragonata all’apprendimento in classe ma,
ha chiarito la ministra dell’istruzione Lucia Azzolina, è pur sempre scuola:
gli insegnanti fanno lezione, usando strumenti digitali che già conoscevano o
esplorandone di nuovi, e gli studenti sono tenuti alla frequenza, collegandosi
online. Sul sito del ministero c’è una sezione che
raccoglie strumenti ed esperienze, da una radio magica (con videolibri
in Lis e mappe parlanti) alle piattaforme messe a disposizione da Microsoft e
Google. Indire, l’istituto dedicato all’innovazione della didattica e alla
ricerca educativa, ha
coinvolto le realtà che già da tempo fanno buon uso degli strumenti
digitali per aiutare gli insegnanti.
Ma la tecnologia è uno strumento che non
tutti maneggiano bene. Secondo i dati raccolti dal ministero nelle prime
settimane di chiusura delle scuole, il 67 per cento degli istituti ha fatto
attività a distanza (usando piattaforme
online ma anche le chat del telefono) e nove su dieci hanno coinvolto gli
alunni con disabilità. In pratica, 6,7 milioni di studenti sono stati
raggiunti, attraverso mezzi diversi, da questa didattica, ma altri 1,6 milioni
no (in Italia il 76,1
per cento delle famiglie dispone di un accesso a internet e il 74,7
per cento di una connessione a banda larga). Così la tecnologia digitale
rischia di amplificare le differenze e di escludere invece che includere. Vale
anche per gli insegnanti. La maggior parte di loro finora usava internet per
consultare fonti e contenuti digitali; meno
di un quinto sfruttava gli strumenti digitali per collaborare con gli
altri docenti e per condividere materiali.
I tentativi per non interrompere la didattica sono tanti, ma
il punto è non ridurre tutto alla sola trasmissione di nozioni
Per mettere tutti gli insegnanti nelle condizioni di fare
lezione e gli studenti di frequentarle, il 26 marzo Azzolina ha firmato un
decreto ministeriale in cui si stanziano 85 milioni di euro. Settanta
milioni, la fetta più grossa, serviranno a garantire “l’accessibilità alle
lezioni”, cioè i dispositivi digitali, alle famiglie in difficoltà. Degli altri
15 milioni di euro, dieci andranno alle scuole per potenziare l’uso delle
piattaforme e cinque saranno dedicati alla formazione degli insegnanti.
Alcuni paesi hanno deciso di usare anche tecnologie meno
innovative per l’insegnamento a distanza. In
Spagna e in Repubblica
Ceca, per esempio, lo fanno con la televisione. In Italia il ministero
dell’istruzione ha
coinvolto la Rai, che faceva didattica a distanza già sessanta anni
fa.
Insomma, i tentativi per non interrompere la didattica sono
tanti, ma il punto è non ridurre tutto alla sola trasmissione di nozioni, visto
che la scuola è anche uno stare insieme, una connessione. Manzi con i suoi
alunni smarriti davanti a parole nuove era sincero: “Sarà difficile. Guardate
anche a me sembra sempre difficile. Ogni volta che comincio a fare un lavoro
nuovo ho veramente paura di non riuscire, però l’esperienza mi insegna che
superate le prime difficoltà noi veramente possiamo andare tranquilli”.
Per capire meglio quali sono le difficoltà di questo momento
e come gli insegnanti stanno provando a tenere uniti la didattica e lo stare
insieme, abbiamo chiesto a sei di loro, da Pordenone a Roma, di raccontarci le
loro giornate.
Marta Longhi, scuola media, provincia di Bergamo
Marta Longhi nella sua casa a Bergamo, 26 marzo 2020. (Luca
Santese per Internazionale, Cesura)
Insegno in una scuola secondaria di primo grado della
provincia di Bergamo, epicentro dell’epidemia, e qui è molto difficile
affrontare questo periodo, anche da docente. La prima settimana mi ero limitata
ad assegnare qualche attività di approfondimento, contando di rientrare presto.
Quando è stato chiaro che non avremmo rivisto le classi per un bel po’, ho
usato una piattaforma online per caricare materiale (video, schede, siti) e per
interagire con i ragazzi e le ragazze. La mia scuola, fortunatamente, ricorreva
a questo strumento dal 2019, quindi è stato più semplice. Infine ho cominciato
a fare lezioni in videoconferenza con le mie classi.
Mi chiedo di continuo se abbia senso continuare con il
“programma”, parlare di Luigi XIV, dei tempi dell’indicativo o dell’economia
dei Paesi Bassi a preadolescenti che si trovano a vivere un evento di questa
portata, spesso anche molto da vicino. Diversi alunni hanno avuto lutti in
famiglia e quindi per me è diventato fondamentale e indispensabile considerare
le conseguenze psicologiche di tutto questo su persone che hanno 12, 13 o
14 anni. Ma ammetto, con sconforto, che la vicinanza che come docente posso
esprimere a chi deve affrontare la perdita di una persona cara o una situazione
difficile in famiglia è sicuramente meno efficace di quanto vorrei, mediata
com’è da uno schermo. Ho capito che le tecnologie non sono inclusive, ma al
contrario evidenziano le differenze: chi non ha una connessione a casa, i
dispositivi necessari o una famiglia che supporti e dia importanza alla scuola
resta inevitabilmente tagliato fuori, proprio perché non basta più “essere
presente in classe” per stare al passo, ma serve un grande sforzo individuale.
E allora mando email, contatto genitori, chiedo ai compagni, ma con il dubbio
di essere invadente, pressante o semplicemente inopportuna in situazioni
complicate, che magari non conosco abbastanza.
Allo stesso tempo, questo è l’unico modo che abbiamo per far
sentire la nostra presenza e quella della scuola a ragazzi e ragazze che sono
in cerca di punti di riferimento. Complice forse l’età (i miei alunni non hanno
ancora l’intraprendenza per organizzare da soli videochiamate di gruppo), la
maggior parte degli studenti attende con ansia l’ora di lezione in video, per
salutarmi, parlare con compagni e compagne, recuperare uno sprazzo di normalità
in queste giornate sospese e immobili. Mi sono resa conto che l’ora insieme,
con i goffi tentativi di replica dei riti scolastici (uno su tutti l’appello),
aiuta a ricreare uno spazio di quotidianità “precoronavirus”. Ne ho avuto la
conferma quando ho proposto ai miei alunni di approfittare delle lezioni anche
per parlare dell’epidemia e analizzare insieme i dati, sviscerando quesiti e
dubbi: alcuni hanno reagito con disagio, e ho colto il loro bisogno di
mantenere quello spazio come un’oasi non contaminata dal dolore e dall’angoscia
di questi giorni.
È chiaro insomma che come docenti ci muoviamo in un campo
minato, intrappolati tra esigenze contrapposte. Un punto fermo, secondo me, è
che la didattica a distanza, in una situazione di emergenza, non può essere
portata avanti senza un ripensamento continuo delle attività, senza tenere
conto del vissuto angosciante e delle fatiche familiari di molti, senza una
ricerca di senso che è possibile solo mediante una riflessione continua e un
confronto serrato tra noi insegnanti.
Laura Acquistapace, scuola media, provincia di Modena
Insegno in una scuola media della provincia di Modena, con
un contratto di supplenza annuale. Ho una di quelle cattedre tipicamente
assegnate ai precari, fatta di ore “spurie”: quattro ore di storia e geografia
in una prima, sette ore di “approfondimento materie letterarie” (che nella mia
scuola è cittadinanza e costituzione) in sette classi diverse.
In Emilia-Romagna la scuola è chiusa dal 24 febbraio. Con i
colleghi, ci siamo organizzati ancora prima che arrivassero indicazioni
precise: abbiamo provato l’app per videochiamate di gruppo, organizzato
l’orario, avvisato i genitori e gli alunni. A scuola, anche se abbiamo il
registro elettronico, tante comunicazioni passano solo se si parla direttamente
con le famiglie o con i ragazzi. Ci sono voluti tempo e perseveranza,
telefonate ai genitori e messaggi WhatsApp agli alunni, per riuscire ad averli
quasi tutti connessi ogni mattina alle 10. Dico quasi, perché alcuni non hanno
una connessione internet abbastanza veloce. A volte, li vedo apparire e
scomparire sullo schermo e quando tento di parlargli non ho risposta.
Purtroppo, le maggiori difficoltà tecniche ce le hanno gli alunni e le alunne
in “svantaggio socioeconomico”, come si dice in gergo scolastico, quelli che
insomma facevano fatica anche prima, nella scuola in presenza.
Anche per questo non mi piace molto il messaggio che la
ministra dell’istruzione Lucia Azzolina ha lanciato qualche giorno fa,
affermando orgogliosamente che “la scuola non si ferma”. È vero che non ci
siamo fermati: io lavoro più di prima, in maniera più stressante, e così tutte
le mie amiche e amici insegnanti. Ma in questa corsa in avanti rischiamo di
lasciare indietro chi non ha gli strumenti — tecnologici prima di tutto, ma
anche culturali e cognitivi — per seguirci. E poi, non sono sicura che queste
giornate davanti allo schermo, fatte di post da leggere, video da guardare,
compiti da caricare, quiz online da compilare facciano così bene ai nostri
alunni. La didattica a distanza non è bella e smart come si vuole far credere,
è soltanto un surrogato che usiamo in mancanza di meglio. Forse, di fronte a
un’emergenza così grave, sarebbe giusto anche rallentare e ripensare il ruolo
della scuola.
Il mio lavoro è ovviamente cambiato tantissimo. Prima di
tutto, invade più di prima il tempo della vita privata e lo spazio domestico.
Ho dovuto organizzarmi con il mio compagno perché, anche se abbiamo una stanza
con una scrivania ciascuno, non possiamo fare videochiamate contemporaneamente.
Adesso, quando ne devo fare una con i miei alunni, o quando registro per loro
dei piccoli video, metto un cartello sulla porta con scritto “on air”.
Avendo otto classi e più di duecento alunni, anche solo
rispondere alle email e alle notifiche della piattaforma mi prende molto tempo.
E poi, c’è sempre l’alunno che ti scrive per salutarti o perché non riesce ad
aprire un link o a caricare un documento: anche se “nativi digitali”, a volte
gli studenti non sanno fare cose banalissime e quindi mi ritrovo a fare
supporto tecnico anche a loro.
Le lezioni in videochiamata sono state fondamentali per
recuperare una forma di relazione con gli alunni, per quanto strana.
All’inizio, temevo che i ragazzi parlassero tutti insieme e che non si capisse
nulla. Ma invece si rischia il problema contrario: “Prof, neanche in classe c’è
così tanto silenzio!”, mi ha detto un’alunna. Per questo, ora più di prima
programmo attentamente le mie lezioni, alternando momenti in cui spiego a
momenti dedicati all’interazione e cerco di far parlare tutti senza che si
sovrappongano.
Paolo Venti, scuola superiore, Pordenone
Desiderio di esserci. Strano vedere che, su 24 studenti, in
23 partecipano a una videoconferenza su Giovenale e una si premura con un’email
di scusarsi perché ha una visita. In classe non si sarebbe preoccupata. La
scuola in questo isolamento totale diventa un po’ uno spazio conosciuto,
sicuro, sia pure online. Dopo i primi giorni in cui tutti erano felici di
questa vacanza inaspettata, tantissimi ammettono che non vedono l’ora di
tornare in classe. E anche nella classe virtuale, con le iconette, le faccette,
i pulsanti vari (mamma mia che confusione per noi docenti ultracinquantenni!
spegni qua, accendi là, scrivi, invia), ci si ritrova tra persone conosciute,
si ricrea quello spazio piccolo che è della misura umana: non la propria stanza
in solitudine e nemmeno lo spazio infinito dei social anonimi.
Didattica in casa. Ogni tanto sullo sfondo s’intravede una
mamma con in mano una pentola di sugo, un fratello che passa di corsa per non
disturbare, incuriosito. Si vedono gli ambienti: la cameretta, i libri, una
cucina, si capiscono un sacco di cose. È la scuola che va a casa, s’invertono
le parti. Penso a un film come Non uno di meno: sentire che
l’insegnante si preoccupa perché non ci sei non ha un sapore persecutorio ma
vuol dire che si interessa a te, a non perderti.
Un’occasione. Quando diciamo ai ragazzi di approfittare per
leggere, guardare qualche buon film, che in questa situazione in fondo i
programmi (che da un po’ peraltro non sono più così cogenti) sono di fatto più
fluidi e che è un’opportunità, diciamo una cosa molto importante e con
conseguenze notevoli. Diciamo che questa è un’occasione per studiare una cosa
se ha senso. In classe se salti Giovenale manca un pezzo, un pilastro, guai…
Online l’insegnante può raccontare più liberamente cosa Giovenale significa
nella sua vita, lo può proporre agli studenti come un’occasione, anche in
questo senso, più che come un dovere.
Sovraccarico. Molti studenti si lamentano per un eccesso di
compiti. Strano, all’inizio pensavamo che a casa non facessero niente. Ma forse
dopo una prima fase di disorientamento a noi insegnanti, a molti almeno, è
tornato un sacro fuoco di approfondire, scambiare, discutere. Il che non è per
nulla male, basta non esagerare.
Disorientati. In particolare gli studenti di quinto anno
sono un po’ in ansia per l’esame. Ci sarà? Come sarà? Per noi docenti diventa
un gioco di astuzia, dobbiamo tranquillizzarli, ma anche tenerli sulle spine
perché non perdano il contatto con la scuola: un “liberi tutti” anticipato sarebbe
la fine di ogni contatto educativo per molti di loro. La situazione insegna
ancora una volta, e in modo esplicito, che la scuola è quello che si fa prima,
che l’esame e i voti sono di fatto l’ultima cosa, spesso solo delle piccole
trovate per tenere i ragazzi legati a dei ragionamenti e a delle discussioni
che li possono far crescere meglio, tutto qui.
Alessandra Petrini, scuola elementare, Torino
Insegno in una scuola primaria di un quartiere difficile dal
punto di vista sociale, economico, linguistico. Organizzarci per ripartire non
è stato facile. L’insegnamento e l’apprendimento nella scuola primaria sono
soprattutto pratici, ludici, sperimentali, cooperativi. È importante tener
conto delle richieste di ogni bambino e bambina, coltivare le loro emotività:
uno schermo è un cambio imprevisto, che non permette questo approccio e che gli
toglie tanta sostanza.
Il mio gruppo docente si è poi scontrato con altri muri. Nel
nostro quartiere il divario digitale, sia tra famiglie sia rispetto alla media
nazionale, è marcato in rosso. Non solo: l’età dei bambini è tale per cui se a
casa c’è uno strumento digitale è del genitore, che quindi deve essere presente
durante l’uso. Per questi motivi abbiamo dovuto scartare sul nascere l’idea di
una classe virtuale. Abbiamo cercato di fornire quelle che io chiamo
“microforme di conoscenza e competenza”.
Proviamo a guidare i nostri alunni e le nostre alunne nella
navigazione online suggerendogli delle videolezioni su YouTube, su argomenti
diversi. Attraverso il telefono le nostre voci li salutano, chiedono notizie, e
sempre al telefono aspettiamo con ansia le loro risposte (chi avrebbe detto che
mi sarei appassionata così tanto ai messaggi vocali?). Cerchiamo di
accompagnarli con percorsi di lettura, audio o video, come evasione dalle
pareti di casa e concime per la fantasia (Leo Lionni e Ulf Stark sono delle
superstar, ormai), per arricchire il loro immaginario, sollecitare la loro
attenzione, portare libri lì dove non ci sono.
Questo ci permette di continuare a incrementare la loro
competenza linguistica, perché i nostri bambini e le nostre bambine sono figli
di cittadini stranieri e l’italiano non è la loro lingua madre. Prepariamo
schede semplificate e diversificate in base a quelli che sono i bisogni
educativi speciali della nostra classe e le inviamo a tutti e tutte. Per gli
alunni per cui il contatto fisico, quantomeno visivo, è necessario, ci siamo,
in video. Ci siamo, pur senza poterli abbracciare nei momenti di difficoltà e
di crisi. Ci siamo per strutturare il loro lavoro, seguirlo, dimostrare che non
sono stati abbandonati ai loro quaderni e sappiamo che, anche se magari non ci
appaiono sullo schermo, accanto a loro ci sono dei genitori che stanno
acquisendo modalità e consapevolezze nuove. I compiti, in questo contesto, sono
inevitabili, anche se sono bocconi amari che nessuno ingoia serenamente:
cerchiamo di calibrare il lavoro, mandiamo spiegazioni per ciascun esercizio,
immaginiamo i tempi, a volte penso alla reazione di alcuni alunni e rido da
sola.
Nella Bruno, scuola elementare, Torino
Nella Bruno nella sua casa a Torino, 28 marzo 2020. (Federico
Tisa per Internazionale)
Insegno nella scuola primaria di un istituto comprensivo in
un piccolo comune della cintura torinese. Il contesto sociale ed economico è
medio-alto, quello culturale medio-basso.
Da quando la scuola ha chiuso il primo pensiero è stato
stabilire un contatto con gli alunni e con le loro famiglie per evitare che,
nell’isolamento in cui siamo costretti, prevalesse il vuoto. Sono convinta,
come spero lo siano i miei colleghi, che la scuola è soprattutto relazione e
che l’apprendimento passa attraverso la presenza fisica di docenti e studenti
nelle aule. Ho usato subito una piattaforma che conoscevo, poi quella
consigliata dalla dirigente. Trovo che non ci siano molte differenze, sono
piattaforme tarate per un numero limitato di utenti. In questo momento sono sovraccariche
e alcune funzioni sono rallentate. Questo aggiunge disagio alle già note
difficoltà di utilizzo degli strumenti digitali che abbiamo noi insegnanti.
Come succede per altre cose nel nostro paese, siamo bravi a lavorare
nell’emergenza, manchiamo però di progettazione e di formazione.
Vedo che tutte le famiglie dei miei alunni sono entrate
nella piattaforma e mi viene da pensare alla scuola dove ho insegnato per molti
anni, nella periferia nord di Torino. Nei vari documenti che parlano di
didattica a distanza leggo l’aggettivo “inclusiva”. Per onestà intellettuale e
per rispetto, non è una parola che userei.
Ognuno ha spostato sulla piattaforma il tipo di didattica a
cui è abituato. Chi in classe faceva una didattica frontale e trasmissiva
inserisce sulla piattaforma pagine di esercizi, schede scansionate da
innumerevoli guide, video trovati su YouTube e, nei casi fortunati, qualche
materiale originale. Nessuno vuole ripensare l’insegnamento per adattarlo alle
lezioni a distanza.
Mi chiedo come usare la piattaforma per sviluppare
l’interesse in alunni così piccoli, per mantenere la socialità con me e tra di
loro. Come ricostruire quella ritualità che regge la scuola e che per un
bambino di sei anni è importantissima. Come fare con i genitori, a cui è stato
sempre chiesto di non intromettersi nella didattica: mi trovo a parlare con le
famiglie per assegnare un compito, una consegna e con gentilezza provo a
concordare il lavoro e i tempi. E poi, il problema da sempre spinoso della
valutazione. La circolare ministeriale non dà indicazioni precise, ci ricorda
che ci dobbiamo attenere alle decisioni del collegio, ma i collegi si sono
espressi secondo quello che richiedeva il decreto legislativo numero 62: “Dare
il voto per le discipline”. Quindi l’insegnante dovrebbe assegnare un compito,
una verifica e poi il voto. Non sono mai stata d’accordo con questo tipo di valutazione.
Soprattutto, in questo momento cosa valuto? Ultima ma fondamentale problematica
che mi preme accennare è l’importanza, sempre, ma soprattutto in questo
momento, di un efficace coordinamento di scuola.
Quando rientreremo nelle classi, mi auguro che si tenga
conto di questo “buco” per riprogettare l’insegnamento. Che si rifletta sulle
mancanze della scuola, prima tra tutte la mancanza di un’educazione emotiva e
sentimentale. Che si pensi a una formazione dei docenti seria e obbligatoria e
non lasciata alle scelte personali.
Stefania Rossi, scuola dell’infanzia, Roma
Insegno in una scuola dell’infanzia nel centro di Roma. Dopo
la chiusura della scuola, passati i primi giorni di confusione è sorto il
problema di come fare per mantenere il legame con e tra bambini così piccoli.
La lezione a distanza non è il metodo più adatto. La scuola
dell’infanzia è relazione, comunicazione non verbale, sguardi, posture, sorrisi
e abbracci: come può una piattaforma sostituire tutto ciò?
Eppure, timidamente e in modo informale, ho approfittato di
WhatsApp per mandare brevi messaggi. Sono arrivate risposte di genitori, audio
dei bambini e istantanee di videochiamate che si facevano tra loro e allora ho
preso coraggio. Ho capito che non dovevamo smettere di comunicare e stare
insieme anche se in modo inusuale, e così ho cominciato a realizzare piccoli
video con attività che so piacere molto ai bambini e alle bambine, per
coinvolgerli e tenere vivo il ricordo del “fare” insieme, una sorta di
continuazione del percorso intrapreso per coltivare un’idea del percorso
futuro.
Ho sempre cercato di tenere lontano la tecnologia dalla
scuola data l’età dei miei alunni, ma in questa occasione si è rivelata una
valida alleata e una risorsa educativa.
In ogni caso, penso che sarà l’elemento umano a farci uscire
da questo strano tempo immobile, a dare un senso all’esperienza che stiamo
vivendo. Abbiamo l’opportunità di riflettere su noi stessi, sulle nostre
relazioni con l’altro, sul rapporto con i nostri figli e con quelli che ci sono
affidati.
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